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Come fossimo eroi

“Noi siamo
quelli che hanno fatto il Tor”

Reportage by
Roberta Veronesi / Italia
pett. 342 al TDG 2012, ritirata al 200° km

 

Le porte del palazzetto si aprono, da quel momento il mondo resta fuori, si entra in un'altra dimensione, tutto il resto non conta più.

Io me ne sto un po’ in disparte, aspetto qualche minuto a mettermi in coda, voglio godermi ancora per qualche attimo questa emozione dell’attesa  guardando  incuriosita i volti delle persone, ognuno con la sua storia, i suoi perché, i suoi sogni. Penso a chi, il destino, vorrà mettermi al mio fianco come compagno di viaggio.

Penso a tutti gli amici a casa, che questo Tor lo faranno con me. A loro che in questi mesi mi hanno seguita nei miei allenamenti e hanno creduto in me. A mio figlio Mattia, che solo qualche giorno prima della partenza  ha realizzato  veramente cos’è il Tor des Géants. E, salutandomi, mi ha detto: “Mamma, ma devi proprio farlo?”
E come spiegargli cosa si prova! A lui, che di questo mondo non ne fa parte?

Cerco lo sguardo, complice, dei conoscenti, quelli che già so, dopo questa esperienza, saranno gli amici più cari. Perché basterà uno sguardo per capirci, per sentirci diversi: NOI siamo quelli che hanno fatto il Tor.
Parliamo una lingua diversa, abbiamo una luce diversa negli occhi e non importa da che nazione si arriva, ci si capisce lo stesso.

Finalmente quel pettorale e quella tanto agognata borsa gialla sono nelle mie mani. Il sogno sta prendendo forma.

La notte dormo poco, so che nei prossimi giorni questo letto, queste lenzuola pulite, saranno la cosa che più mi mancheranno, ma l’emozione è tanta e la voglia di partire ancora di più.
Il momento tanto atteso è arrivato, il conto alla rovescia è iniziato, la gente ci applaude, ci guarda come fossimo eroi, o forse solo dei folli, ma è lì che ci incoraggia. I brividi lungo la schiena, quella lacrima che non ne vuole saperne di stare al suo posto, l’abbraccio di mio figlio e il pianto a dirotto.

Anche questo è Tor.

La gara entra nel vivo: il sentiero, la prima salita, il primo colle conquistato e poi lei: la prima notte, la prima Base Vita, troppo affollata per fermarsi a riposare e quindi la decisione di proseguire fino al rifugio Epee, nella speranza di trovare un posto dove riposare un’ora, prima di riprendere il cammino.

Il silenzio della notte, la luce della frontale, le stelle che sembra si possano toccare con un dito, sono le compagne di viaggio. Mentre la testa corre, pensa alla tappa successiva, calcola i tempi, i cancelli orari, i dislivelli, la distanza alla prossima  Base. Tutto aiuta a non farsi prendere dal sonno.

L’alba, l’aria fredda e il sole che timidamente si fa vedere. Il secondo giorno è arrivato e il Col Loson aspetta di essere cavalcato! Un leggero dolore al ginocchio, faccio finta di non sentirlo, non voglio ascoltarlo.
Mi godo il tramonto al Loson prima di scendere. Un'altra notte mi attende, il sonno arriva più prepotente. Devo distrarmi.

Ma cosa ci fanno quelle strane persone sul sentiero, quei bambini che mi salutano  e quell’uomo con la valigia di cartone perché è sdraiato in mezzo alla strada? Eccole, le prime allucinazioni! Forse è il caso di riposare.

È ancora notte, ho riposato due ore, devo ripartire, la strada è ancora lunga.
Arrivare al Rifugio Sogno dopo sei ore di cammino  e trovare una colazione da albergo 5 stelle è una gran sorpresa, ma il sonno ancora una volta vince sulla fame e la mia testa si piega sul tavolo. Quei dieci minuti bastano per riprendere le forze.

I chilometri corrono veloci, il tempo vola, l’adrenalina non diminuisce, l’entusiasmo aumenta. Come aumenta quel fastidio al ginocchio.

Salite, discese, rifugi, basi vita. Il Tor sta per essere conquistato. Nella mia testa il conto alla rovescia è iniziato. Ma il fastidio si trasforma in dolore e il passo diventa sempre più lento.
Il primo antidolorifico, poi il secondo e il terzo.

Torna la notte, il sentiero  irregolare, le pietre, i bastoncini che si rompono, il vento, il compagno giapponese che non mi capisce. A ogni passo il dolore è sempre più intenso, fino a non poterne più, così insopportabile da non poter appoggiare il piede.

Una luce, una baita, il fuoco del camino e la triste e dura decisione: il ritiro.

Il viaggio in elicottero verso l’ospedale e le mille riflessioni. Sentirmi felice in ogni caso, vincente nonostante tutto.
Questo è il mio Tor. E io l’ho vinto".

 

Per chi vuole ripercorrere i passi di Roberta al Tor, leggendo il suo reportage dettagliato: Fiatocorto.org

Aggiornato: Lun, 24/09/2012 - 18:26